La 44esima mossa

L’ultima resistenza del cervello

Pubblicato il 26/11/2016



Mi ha sempre affascinato il gioco degli scacchi. Sarà magari per la grinta che ci metti nel combattere, oppure perché magari alla mente piace pensare di poter creare una strategia vincente, imbattibile. Quando inizi una partita, tutto il resto sparisce ed esistono solo quelle 64 caselle. La cosa che mi ha sempre colpito di quelle 64 caselle è l’analogia con la vita.

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Come nella vita, anche nel gioco degli scacchi, quando fai un errore “tre turni prima”, l’unica cosa che non puoi fare è tornare indietro. Certo, puoi rimediare. Certo, magari non sapevi fosse un errore tre mosse fa quella determinata scelta. Ma il punto non è questo. Il punto è che non si può tornare indietro! Voi ora penserete: “posso sempre spostare le pedine con altre 3 mosse nella posizione precedente”. Ma nel frattempo il mondo intorno a voi sarà cambiato un po'. L’avversario avrà fatto altre 6 mosse, e la situazione su quelle 64 caselle sarà così cambiata che tornare indietro non è proprio la scelta migliore.

Come nella vita, anche negli scacchi, maledirsi per quello che è avvenuto non serve a nulla. Una volta interiorizzato l’errore bisogna proseguire. Bisogna continuare a domandarsi “nonostante tutto, qual è la miglior prossima mossa che posso fare?”. Innervosirsi, dannarsi, rimpiangere il passato, non ci aiuteranno in questo. I migliori giocatori di scacchi lo sanno e capiscono che la loro prossima mossa non dovrà essere influenzata dal rancore per l’errore commesso. Dovranno dimenticare. I migliori giocatori di scacchi, sono dei computer. A differenza di noi umani non “sentono” la pesantezza dell’errore...

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Garry Kasparov, campione del mondo di scacchi

Il 3 maggio 1997 al trentacinquesimo piano dell’EquitableBuilding di New York ebbe inizio quelli che molti definiranno una sfida epica. Nel seminterrato dello stesso edificio era stata allestita una sala con tre maxischermi che trasmettevano in diretta un match di scacchi. Quella mattina i titoli di giornale erano tutti per questa sfida e tra un trafiletto di politica e l’evento di cronaca odierna a grandi lettere si poteva leggere il titolo principale: “The Brain’s Last Stand”, l’ultima resistenza del cervello.

Il match durò in totale otto giorni, portando i due avversari ad avere un punteggio di 2 e mezzo pari alla fine della partita disputatasi il 10 maggio 1997. Ma l’ottavo giorno, durante il sesto incontro di quell’interminabile sfida, Garry Kasparov, il campione indiscusso del gioco degli scacchi, capitolò e la vittoria fu della macchina, del cervello di silicio: Deep Blue. Si perché quella sfida tanto attesa, non era tra un campione del mondo e il suo sfidante al titolo, ma tra Kasparov e il supercomputer costruito dall’ IBM per giocare a scacchi. Un’ intelligenza artificiale progettata per essere imbattibile in quel mondo formato da 64 caselle.

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La dinamica di quelle sei partite fu analizzata ripetutamente, nel tentativo di trovare una spiegazione a ciò cui non si trovava un senso, la quale appariva come una sconfitta totale, universale, inappellabile dell’intelligenza umana. Il motivo, dissero, l’errore fatale era insito in Kasparov, nel suo fattore umano.
Si era presentato all’ultimo ‘game’ di quel match stressato, stanco e turbato da mille pensieri. La sua congettura più grande è stata, anche negli anni a seguire, che la partita fosse truccata e che dietro quel super computer ci fosse anche un espertissimo giocatore di scacchi a suggerire alla macchina di silicio quale fosse la mossa migliore da fare tra una serie di possibilità. Ma non era cosi. Non si trattava semplicemente di una lotta tra cervelli. Non c’erano solo il puro calcolo, la pura intelligenza, in gioco. La sfida reale era tra l’uomo e la macchina.

Quando Kasparov perse, questa diventò una delle partite più studiate di sempre dagli esperti di scacchi. Quasi tutti furono d’accordo con una teoria: l’intelligenza in quella sfida non fu il fattore determinante per la sconfitta del campione mondiale Kasparov. In realtà a decretare la sconfitta di Kasparov fu un elemento molto più umano: la paura. Nel corso della prima partita il computer aveva avuto l’opportunità di mettere sotto scacco il re di Kasparov con il movimento della sua torre, ma non fece quella mossa. Non sfruttò l’occasione. Quella quarantaquattresima mossa apparve inconcepibile agli occhi di Kasparov che, al turno successivo, sconfisse il computer. Il turbamento, però, rimase. Tra sé e sé studiò quella mossa. Non riusciva a capire come una mente cosi logica avesse fatto una scelta cosi irrazionale. Ci doveva essere un’altra spiegazione.

Trascorse notti insonni nel tentativo di capirne la logica, le stesse notti insonni che portarono Kasparov ad uno stato indecente all’ultimo match. Alla fine ci riuscì: quella scelta avrebbe permesso a Deep Blue di arrivare allo scacco matto in meno di venti mosse. Deep Blue riusciva a proiettarsi avanti anche di venti mosse. La prospettiva che il computer fosse in grado di vedere così avanti sulla logica del gioco terrorizzò Kasparov. In Kasparov qualcosa cambiò. Incominciò ad avere paura, la sua mente non riusciva più a concentrarsi completamente sulla partita e perse quel senso di protezione e sicurezza che quel mondo formato da una scacchiera e un esercito da guidare alla conquista del re avversario, gli avevano trasmesso fin dall’età di 6 anni quando venne a mancare suo padre, il suo primo insegnante di scacchi. Secondo Nate Silver fu proprio quella paura, scatenata dalla quarantaquattresima mossa, a decretare la sconfitta del campione russo.

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